Dinamiche rigide e un gruppo di uomini che decide cosa è giusto o sbagliato: al regista cileno la storia del suo ultimo film, appena arrivato su Netflix, ha ricordato l’infanzia nel suo Paese stretto dalla morsa del totalitarismo. L’abbiamo incontrato al Festival di San Sebastián per parlarne, per discutere del potere della visione e per farci raccontare perché Il prodigio si apre mostrando ciò che sta dietro la macchina da presa

Lo incontro il giorno dopo la presentazione ufficiale de Il prodigio, il suo ultimo film (da qualche settimana su Netflix), al Festival di San Sebastián. L’anteprima per la stampa è andata bene. Sulla conferenza stampa e sulla proiezione di gala sono piovuti lunghi applausi.

Sebastián Lelio è soddisfatto, sembra rilassato mentre beve una tazza di tè. Il pomeriggio festivaliero è nuvoloso, ma la kermesse è attraversata da un’energia che non si arresta.

Lui ha presentato Il prodigio a Toronto una settimana prima di venire a San Sebastián. Quando accenno alla prima mondiale del suo Gloria Bell a Toronto, quattro anni fa, si illumina e sorride. È calmo e amichevole.

Cileno, classe 1974, è approdato al successo internazionale nel 2013, quando il suo Gloria trionfò al Festival di Berlino vincendo l’Orso per la migliore attrice e il National Board of Review lo incluse tra i cinque film stranieri dell’anno. Quattro anni dopo Una donna fantastica vinse l’Oscar per il film straniero. Poi ci sono stati Disobedience con Rachel Weisz e Rachel McAdams, il remake hollywoodiano di Gloria (Gloria Bell appunto) con Julianne Moore, e uno dei corti di Homemade, serie realizzata durante la fase più acuta della pandemia quando tutti i registi erano in lockdown (fra gli altri, Paolo Sorrentino, Pablo Larraín, Maggie Gyllenhaal e Kristen Stewart).

Il prodigio parla di un’infermiera (Florence Pugh) che nel 1862 sbarca in Irlanda dalla nativa Inghilterra per investigare sul caso di una ragazzina (Kila Lord Cassidy) che digiuna da quattro mesi. Un prodigio che la scienza non sa spiegare. Un film sul potere della visione e delle immagini (anche mentali) che creiamo ogni giorno.

Quando mi siedo di fianco a lui per parlarne, in una suite dell’hotel Maria Cristina, parto dalla scena iniziale: Lelio ci mostra il retroscena, la macchina da presa attraversa lo studio per poi chiudere sull’angolo che ricrea la cabina della nave in cui sembra che la Pugh stia viaggiando, dando inizio all’illusione.


Con quell’incipit hai voluto metterci in guardia? Per dirci di non credere a tutto?

Certo. Volevo far diventare il film una parte del problema. E volevo uno spettatore attivo, che non si limitasse a perdersi nella storia e nelle avventure della protagonista. Di che prodigio stiamo parlando? Nel film si scontrano ragione e superstizione, razionalità e pensiero magico. Ecco perché ho voluto dire allo spettatore: attenzione, potrai essere ipnotizzato da questa storia e dalla sua finzione ma… tu a cosa credi? In sala come nella vita. Le credenze hanno un grande potere: nascono e durano centinaia di anni. Il patriarcato, la religione, le ideologie. Ecco perché con Il prodigio ho cercato di creare un contatto con lo spettatore. Per dirgli: non considerare tutto vero in partenza. Alcuni personaggi del film credono in qualcosa che non esiste, per scelta o perché sono portati a farlo. Io vorrei che lo spettatore si facesse la sua idea a proposito di cosa sta accadendo sullo schermo.

Sebastián Lelio al Festival di San Sebastián © Jorge Fuembuena / SSIFF

E anche oltre lo schermo, giusto?

E anche al di là del film, sì. Siamo immersi in una cacofonia di storytelling e di opinioni diverse, capire cos’è reale è sempre più difficile. Per questo la storia che racconto è molto attuale.

Ieri, alla conferenza stampa del film, qualcuno parlava di distanziamento secondo Bertolt Brecht…

[sorride, ndr] Quello è un modo per problematizzare ciò che gli spettatori vedono. In questo film il processo è più o meno lo stesso. Il problema non è a cosa vanno incontro i personaggi e cosa vivono, ma come chi vede il film si relaziona a ciò che viene mostrato. Il prodigio parla di personaggi chiaramente fittizi, frutto dell’immaginazione. Ma ciò che rappresentano è reale. Ecco perché ho aperto Il prodigio mostrando il backstage, e solo in un secondo momento ho invitato lo spettatore a sospendere l’incredulità portandolo nel 1862: ho ribadito subito che parliamo di finzione, perché sto mostrando qualcosa che non può essere mostrato ma solo ricostruito, ossia il passato. Questa storia, del resto, parla di qualcosa che non accadeva solo nel 1862, ma che è sempre accaduta e che accade ancora oggi.

Il pericolo dell’ostinarsi a credere in qualcosa, ad esempio?

Anche. Certe credenze possono essere pericolose: pensieri su cui l’umanità si è fossilizzata. Ma possiamo impegnarci per cambiarle, e arrivare a non far accadere più quello che accade oggi in Iran, dove una certa interpretazione della realtà autorizza un uomo a frustare una ragazza perché non è vestita in modo consono.

Restiamo sul confine fra educazione e intrattenimento, insomma.

Spero di offrire allo spettatore un’esperienza complessa. Pensieri e idee sotto forma di spettacolo. Ma non voglio mai essere pedagogico. Il cinema passa attraverso le emozioni: dietro devono esserci delle idee, certo, ma il primo approccio deve essere viscerale, non didascalico.

Un personaggio principale che viene chiamato per investigare in una comunità locale. La dicotomia fra credere e cercare una chiave al mistero. Infine il taumatropio. Vedendo Il prodigio non ho potuto non pensare al Mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton…

Beh, alla base del cinema c’è proprio quell’illusione ottica, legata alla persistenza della visione nel nostro occhio. È qualcosa di fisico: genera visioni per il nostro meccanismo percettivo. Il taumatropio ne è un simbolo.

Il prodigio, Gloria e poi Gloria Bell, Una donna fantastica… le protagoniste femminili sono più interessanti?

Non posso competere con le statistiche! Non sono mai state scelte programmatiche, in ogni caso: ho sempre scelto ciò che mi commuoveva. Quando ho girato Gloria nel 2012, ad esempio, è stato emozionante mettere in primo piano una donna che nessuno avrebbe considerato degna di un ruolo principale. E la mia prima connessione con questo personaggio femminile è stata emotiva, non razionale.

C’è qualcosa di personale ne Il prodigio?

È stato facile empatizzare con queste due donne che affrontano una comunità chiusa, che cercano una forma di libertà e sono pronte a pagarne il prezzo. Le dinamiche sociali con cui si scontrano sono rigide, hanno al centro un gruppo di uomini che decidono cos’è giusto e cosa è sbagliato sotto l’ombrello del cattolicesimo. Ho ripensato alla mia infanzia in Cile, un paese cattolico, durante la dittatura… e non ho trovato molte differenze con l’Irlanda dell’Ottocento descritta nel romanzo e con il suo tessuto sociale.

Un film più attuale di quanto si pensi allora.

Certo! È sempre più importante scegliere a cosa credere: dobbiamo creare storie e narrazioni che ci facciano progredire, non che ci portino indietro nel tempo. Pensa a cosa è successo negli Stati Uniti con il diritto all’aborto: in un batter di ciglia siamo tornati indietro di cinquant’anni.

 

Immagine di copertina © Ulises Proust / SSIFF



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